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Emozioni: la teoria del Juke box

Emozioni: la teoria del Juke box

   I bambini piccoli non provano paura nella maggior parte delle condizioni in cui la provano gli adulti. Sembra che la ragione fondamentale risieda nella differenza delle conoscenze presenti negli adulti, quello che viene definito come un apprendimento sociale. Coi cani avviene la medesima cosa.

Noi adulti abbiamo motivo per avere paura di un animale e non di altri, di un leone e non di una giraffa, di una vipera e non di una biscia; proviamo ribrezzo per un ratto e non per un criceto o una talpa in quanto sappiamo della pericolosità dell’uno rispetto all’altra, della repulsione socialmente appresa del topo rispetto al criceto o allo scoiattolo o al castoro, della conoscenza che la vipera è velenosa mentre la biscia no. In definitiva è la nostra mente che ci avverte se avere o non avere paura.

     La risposta del nostro corpo, cioè, l’acquisizione del fatto che il nostro corpo è agitato, ci fornisce l’ulteriore informazione per preoccuparci e continuare ad avere paura.

Secondo il grande psicologo di Harvard William James i cambiamenti corporei avvengono per primi e poi – in risposta a questi cambiamenti – si sente la paura. Come dire che se vedo un orso che mi viene incontro all’improvviso, prima mi agito e poi avrò paura.
Sembra assurdo ma nella teorizzazione dello scienziato “proviamo tristezza perchè piangiamo, ci arrabbiamo perchè picchiamo, abbiamo paura perchè tremiamo…”.


Per provare emozioni forti è necessario avere, quindi, qualche tipo di retroazione dal proprio corpo – delle indicazioni sulle reazioni fisiologiche che hanno luogo. Il nostro sistema delle emozioni sembra rispondere a una logica e a delle convinzioni.     Una delle motivazioni più formidabili per reagire secondo una emozione è la comprensione della situazione e la conoscenza di come se stessi si reagisce in circostanze simili.
La teoria del juke box formulata da Schachter e Singer in seguito ad un famoso esperimento del 1962, concorda con l’idea di William James e sul grado di consapevolezza che le persone hanno della situazione per aspettarsi certe risposte.

      Nell’esperimento si somministrava a delle persone volontarie dell’epinefrina dicendo che era un nuovo composto vitaminico. L’epinefrina provoca, invece, un’agitazione generalizzata.
Lo scopo dell’esperimento consisteva nello studiare le diverse reazioni delle persone quando venivano sottoposte a provocazioni di varia natura in un contesto sperimentale.

     Vennero quindi messe ad aspettare in una sala in attesa prima di essere chiamati per sottoporsi all’esperimento. Così fu detto loro mentre in realtà l’esperimento consisteva nel valutare le loro reazione emotive quando delle persone complici li istigavano inventandosi cose alquanto bizzarre come costruire aeroplani di carta e lanciarli da una parte all’altra della sala o li provocavano sul piano dell’aggressività.

Durante l’esibizione di finta euforia il complice invitava il vero soggetto a partecipare ai suoi giochi.

Il fatto che i soggetti accettassero oppure no l’invito del collaboratore dello sperimentatore dipendeva da ciò che era stato loro detto riguardo agli effetti dell’iniezione.

Ad alcuni soggetti fu infatti detta la verità – che l’iniezione avrebbe prodotto un lieve tremolio alle mani, un aumento del ritmo cardiaco e una sensazione di calore in faccia. A un secondo gruppo vennero invece date informazioni sbagliate – che la droga avrebbe prodotto torpore nei piedi , una sensazione di prurito e un leggero mal di testa. Ad un terzo gruppo non fu data alcuna informazione.

I risultati furono che i soggetti che avevano ricevuto l’informazione corretta non accettarono l’invito a giocare ne risposero in modo aggressivo alle provocazioni. Quelli invece che avevano ricevuto l’informazione sbagliata o nessuna informazione partecipavano al gioco o rispondevano con aggressività alle provocazioni.

La conclusione di questo esperimento ci induce a credere che

l’attivazione fisiologica prodotta da una droga può porre le basi per un emozione ma non è sufficiente. Quando i soggetti sanno quali reazioni attendersi interpretano correttamente i loro cambiamenti fisiologici; quando non hanno una spiegazione per quel che sentono , interpretano questi effetti nei termini della situazione.

L’iniezione della droga – proprio come il gettone nel juke box – mette le cose in azione, fornisce l’energia. Ma la “melodia” suonata – o l’emozione che si prova – dipende da che bottone si preme.

     La teoria di Shacther ha avuto un grande successo.

Ritengo che ha anche contribuito a cambiare l’atteggiamento culturale di fronte alla sofferenza psichica. Mentre una volta si era più inclini a ritenere che le emozioni avessero una vita propria indipendente dal modo di pensare o dall’esperienza o anche dal contesto, oggi possiamo ritenere il coinvolgimento emotivo un dato in grado di essere controllato grazie alle nostre conoscenze e consapevolezze su come funzioniamo.