La mia esperienza col cancro
La mia esperienza col cancro
Ho vissuto anch’io l’esperienza del cancro
Ho vissuto anch’io l’esperienza del cancro e oggi ne porto ancora le conseguenze dovute agli effetti deleteri della chemioterapia sulle articolazioni. Soffro cioè di dolori che si focalizzano ora nell’articolazione della spalla, ora del polso o del ginocchio. Sono ancora costretto al cortisone ma è nulla rispetto a quello che ho vissuto solo dodici mesi fa.
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Macchinario per pazienti in chemioterapia
L’anno scorso di questi tempi facevo la chemioterapia e come molti, purtroppo, ero costretto a letto in uno stato particolare di spossatezza, nausea e debolezza. Non ho avuto dolori particolari e a volte mi sorprendeva come gli altri mi trattavano. Ora posso dire che ho fatto anch’io l’esperienza del tumore e ne sono uscito vivo. Non so ancora cosa potrà accadermi nel futuro (e chi lo sa), ma senza vanteria posso dire di averlo vissuto non proprio male; come ebbi a dire al suo inizio ai miei figli: “Sarà una esperienza formativa nella mia vita, mi mancava”. Infatti durante questa esperienza ho avuto modo di conoscere meglio le persone sia amici che parenti e persone che in qualche modo, sono arrivato a contatto grazie alla mia malattia e all’aspetto che mi conferiva: senza capelli e col corpo gonfio per le dosi massicce di antitumorale ma anche per i movimenti lenti e l’andatura barcollante e il fisico indebolito e dolente.
Atteggiamento nei confronti della malattia
Nonostante ciò, però, ho avuto modo di soffermarmi spesso su alcuni comportamenti e atteggiamenti delle persone e ho avuto modo di capire il loro il loro modo di porsi nei confronti di questa malattia. In primo luogo il rispetto e la paura per la morte, quella che mi leggevano e mi attribuivano addosso e, di conseguenza, la fatica che facevano a nascondermelo.
Su di me questo atteggiamento riscuoteva commiserazione in primo luogo per loro ma, pensandoci bene, anche nei confronti della mia persona in quanto, sebbene contro i miei principi, non scappava il coinvolgimento emotivo per cui potevo sentire in me qualche riverbero di empatia nei loro confronti.
Allora, come se mi fossi scisso, l’altro me stesso provava anche lui come il mio “adulatore”, commiserazione per quel “resto umano”, nel gioco dell’identificazione.
Comprendevo però la forza che spingeva alcuni a immedesimarsi nella morte e che ho incontrato qualche volta ai funerali, ma il mio stato d’animo non era di quelli che mi appioppavano.
Non ero per niente scosso o mi sentivo in qualche modo menomato, anzi, dal mio punto di osservazione mi sentivo un privilegiato, uno in grado di guardare “al di sopra della loro spalla”. E vedevo una persona con niente di diverso rispetto a uno che si è rotto una gamba e che ben presto riprenderà a vivere come prima. Ne ero fermamente convinto nonostante le persone a me care mi esprimevano preoccupazione e sollecitudine, talvolta sconforto.
Avevo solo due anni di vita
Addirittura, anche quando uno dei medici che consultai rivelò alla mia paziente compagna la sua diagnosi e la sua prognosi: avevo solo uno, massimo due anni da vivere. Lo disse a lei e non a me nonostante le avessi spesso raccomandato di dirmi assolutamente tutto quello che si riferiva alla mia malattia. Una scorrettezza che mi fece andare su tutte le furie, specialmente per il fatto che aveva turbato la mia compagna fino a crearle uno stato di forte ansia e prostrazione. In quanto a me quella notizia era assolutamente infondata.
Avevo letto molto sull’argomento compreso un paio di tesi di dottorato specifiche sulla tipologia di cancro. Ma avevo anche scoperto in me una forza inimmaginata, addirittura un atteggiamento di quasi indifferenza o di irresponsabile superficialità -fate voi- nei confronti di quanto mi stava accadendo. Un po’ di cinismo anche nei propri confronti qualche volta non fa male, mi dicevo. La paura di morire mi lambiva qualche volta e quella volta fu la volta che mi interessò di più.
Stavo cercando di vedere come sarebbe stato il mondo senza di me e la cosa non mi faceva perdere d’animo e nemmeno la fiducia di uscirne vittorioso. La mia mente non prendeva in considerazione l’evento della mia morte. Mi soffermavo piuttosto sugli aspetti della malattia, della personalità dei medici che si occupavano di me, degli ambienti che ero costretto a frequentare, degli atteggiamenti delle persone che incontravo. Volevo davvero trarre vantaggio da quella esperienza.
Mi sentivo spesso un esploratore, un giornalista che avrebbe potuto riportare quanto viveva e quanto esperiva in quelle circostanze, in quel mondo che fino a poco tempo prima mi era quasi completamente sconosciuto se non per il fatto che avevo conosciuto nel mio lavoro una donna che si era rivolta a me per ricevere un aiuto psicologico durante la sua personale esperienza col cancro.
Ma era tutto diverso rispetto ad ora
Mi soffermavo sulle caratteristiche dei luoghi e su come le persone mi trattavano. In primo luogo rispetto alla cura e all’empatia del personale, ma anche quanto si riferiva all’organizzazione degli spazi e dei servizi rivolti al malato. Ero in grado di distinguere le persone fatte in un modo da quelle fatte in un altro.
Mi spiego. In questo lavoro come in tanti altri, le persone realizzano la loro efficacia per quanto bene possono aiutare gli altri. Questo è uno di quelli. Mi sono trovato al cospetto di infermieri molto professionali e molto preparati; e questi ti ispirano fiducia e tu ti lasci andare se non hai altre preoccupazioni;
Ho incontrato nella mia esperienza infermieri che portavano con loro i problemi e le preoccupazioni da casa e solo per un pelo non hanno scambiato una medicina con un’altra. Parlavano tra loro ad alta voce e quando lasciavano cadere la bottiglia vuota della flebo nel contenitore pieno provocavano un tale rumore di vetro che mi sentivo male.
Mi sentivo male mentre facevo la mia periodica insufflazione di “veleno rosso” quel liquido di colore rosso conteneva un sale di platino, mi salvava ma mi provocava una nausea e una ipersensibilità alla luce e ai rumori. Potete immaginare quel rumore quale scuotimento mi provocava. Quella persona che mi avrebbe dovuto assistere faceva il suo dovere di infermiere ma non era ancora riuscito a comprendere l’effetto molesto che provocava ai malati. Oppure semplicemente non gliene fregava niente.
Mi ricordo di quella brava persona
A Napoli può accadere di tutto.
Mi ricordo di quella brava persona a cui sembra affidata l’intera gestione dell’organizzazione delle chemioterapie e delle visite oncologiche al secondo policlinico che in qualità di volontario faceva e fa del suo meglio per accogliere ogni mattina decine di persone malate nelle più svariate condizioni fisiche a cui mi rivolsi per fare abbassare il volume del microfono. Si meravigliò della mia richiesta ribattendo che altrimenti quelli che stavano fuori dallo stabile non avrebbero sentito.
Ero abituato ai modi e ai mezzi della comunicazione nell’ospedale di Bergamo dove mi ero operato qualche mese
prima e al rispetto che riservano a tutti i degenti in quella struttura.
In quanto all’aspetto della comunicazione la commiserazione che traspare dal comportamento di molti mi induce a considerare il movente di tale atteggiamento.
Dunque, per esperienza diretta posso dire che ho appreso che le persone si manifestano nei tuoi confronti come esse sono riguardo al loro modo di pensare e alle loro convinzioni. Se hanno timore della morte mostrano nei suoi confronti riverenza. Nei tuoi confronti invece commiserazione. Quando vedono su di te la morte allora c’è la commistione di questi due sentimenti in qualcosa che si esprime in una forma dove tu come persona ci sei e non ci sei.
Da un lato vieni investito di questa aura mistica del rispetto perchè portatore di qualcosa di soprannaturale come la morte mentre dall’altra vieni riconosciuto un semplice e ordinario oggetto a cui la morte si rivolge come da copione. La commiserazione si esprime invece nei termini di innocenza. Diventi in quello stato uno senza identità in quanto stai per lasciare il mondo di coloro che hanno diritti e potere. Pertanto non hai volontà e non puoi più gestire i tuoi fatti personali in quanto non ti viene riconosciuto un futuro.
Ritorni ad essere piccolo

Foto-OL, Unterricht, Freude
Foto: BASPO / Ulrich Känzig
Adesso mi rivolgo a quanti hanno condiviso questa esperienza chiedendo a loro conferma.
Ti liberano di ogni responsabilità e impegno. Ti trattano come se avessi perduto i diritti civili. Proprio come i bambini piccoli che hanno bisogno di chi si occupa di loro. Ma senza i diritti dei bambini in quanto stai per diventare un peso per la società e non come per i bambini che sono una risorsa in nuce per la società. In quelle vesti sei però oggetto di commiserazione o pietà. Questi sentimenti, anche se ipocritamente sono evidenti i tentativi di occultamento, emergono evidenti in numerosi comportamenti fintamente di cura.
Tu ti accorgi di quanto sono puerili queste persone e se hai dignità da difendere oppure da vendere abbozzi, comprendi e cerchi di soprassedere a meno che non sono persone che hanno in mano la tua vita o almeno gestiscono parte delle scelte che ti riguardano come la pensione o il lavoro o certi diritti. Se ti arrabbi mostrano di comprenderti ma ti fanno sentire impotente in quanto ciò che dici è solo frutto delle tue lamentele poiché la malattia ti costringe a farneticare.
Proprio come nella pazzia
Proprio come nella pazzia il malato di cancro viene spesso considerato incapace di ricevere certi diritti o di interessarsi a cose che prima erano ritenute normali per lui. In definitiva, mi sono convinto che questi atteggiamenti e comportamenti nei confronti del malato di cancro dipendono da come l’individuo si dispone di fronte alla morte.
Ora che mi sono ricresciuti i capelli e che ho assunto il mio aspetto normale ho ripreso i miei comportamenti soliti. Le persone si rivolgono a me come prima ma io non sono cambiato. Eppure, quanto ne può l’aspetto e certi pregiudizi. Forse perché gli ammalati di cancro esprimono più di quanto si pensa l’immagine di una persona come ho descritto di dipendenza, sofferente e inetta e per questo perdono gran parte dei loro diritti ed evocano commiserazione e rispetto (ma solo perché hanno la morte addosso). Non sanno, questi che le persone che vivono l’esperienza del cancro, si esprimono e si comportano secondo la loro personalità e le loro convinzioni ?
Ebbene, ho scoperto ancora una volta che è proprio così; le persone affrontano il cancro se sono abituate ad affrontare; vivono emotivamente la malattia secondo le loro tendenze ottimistiche e fiduciose oppure pessimistiche e arrendevoli; si comportano dunque secondo alcune direttive riconoscibili nel loro carattere.
L’esperienza del cancro può essere una esperienza ricca e densa di significati in quanto aiuta a considerare e riconsiderare se stessi, le proprie tendenze e particolarità di curiosità, competenza o lucidità e forza d’animo e visione della realtà nonché se stessi rispetto agli altri e gli altri nelle loro tendenze e particolarità compresa la loro visione del mondo.
Questa esperienza mi ha dato l’opportunità di conoscere meglio me stesso, il mio grado di coinvolgimento con le persone e il loro stato d’animo, le mie paure e quanto queste potessero incidere sulla mia forza interiore. L’ho vissuta anche come una sfida in quanto mi sono opposto ad un potere che forse non era nelle mie facoltà e ho dovuto ricredermi in quanto in parte e non so quanta, ho contribuito a contrastarla e ad affrancarmi dal suo dominio che qualcuno vede incontrastabile.
Il timoma che mi era cresciuto in petto
Ho accennato all’esperienza che avevo fatto a Bergamo presso l’Ospedale Maggiore dove nel reparto di chirurgia toracica mi recai a dicembre del 2011 per l’intervento chirurgico in seguito al quale mi venne tolto il timoma che mi era cresciuto in petto. Fu una esperienza importante per me non solo perché mi liberai di un male ma anche perché ebbi modo di conoscere le persone di cui sto per raccontarvi.Queste persone rappresentano, ancora una volta, modi diversi di affrontare la malattia in base al carattere che possiedono e, quindi, alcune tendenze che esse esprimono in diverse circostanze.
Due compagni di sventura
Nella camerata a sei letti c’erano due miei compagni di sventura con i quali ebbi modo di fraternizzare in quella circostanza. Ero attratto dai modi del personale sempre disponibile e gentile ma soprattutto mi affascinò uno dei più importanti principi che perseguivano con rigore, cioè il principio del non dolore.
Ero convinto fino a quel momento che quando il dolore è sopportabile si possono evitare le medicine. Ebbene in quella circostanza compresi a mio favore che anche dolori sopportabili dovevano essere evitati e così medici e infermieri si prodigavano a fare cessare qualsiasi dolore noi si esprimeva in qualche modo.
L’altro degli aspetti attraenti per me in quella occasione fu il comportamento e le personalità dei miei colleghi degenti, i miei compagni di sventura. Uno di loro, del quale individuai delle caratteristiche a me più vicine rispetto all’altro,almeno fino a quel momento, era fino a qualche giorno prima un maratoneta. Arrivò il giorno dopo di me e se ne stava accucciato e timoroso sopra il suo letto con la moglie che l’assisteva in ogni cosa.
Si capiva che erano stati sconvolti dalla notizia del tumore al polmone e rimanevano ancora increduli e come annichiliti. Mentre da un lato cercavo di rispettarli evitando di tentare di sollevarli con frasi inutili e di circostanza, dall’altra cercavo in qualche modo di dialogare con loro e in particolare con lui che mi appariva fin da qualche scambio che c’era stato, pessimista e lamentoso. Questa tendenza del carattere si rivelò in seguito verosimile nonché verosimili certi comportamenti di lui arrendevoli e fatalisti.
Ci ritrovammo a subire l’intervento chirurgico lo stesso giorno e tutte le fasi del postoperatorio, compreso l’esercizio a respirare in un tubo e fare alzare un pistone fino a un certo livello per ampliare la nostra capacità respiratoria e favorire con quella riabilitazione la nostra guarigione dall’intervento. Tutt’altra cosa sarebbe stata la cura successiva del cancro che ciascuno si ritrovava ancora in parte nel petto e a cui avrebbe dovuto provvedere con la chemioterapia. A me fu prescritta una radioterapia ma fu ritenuta poco rispetto a quello che lo specialista napoletano richiedeva per il mio caso. Durante la settimana di convalescenza ebbi modo di conoscere meglio Fabio (chiamiamolo così). Confermai le caratteristiche del suo carattere. Introverso ma interessato alle persone e a quello che esse potevano fare per lui, circondato dall’affetto della mogli e delle figlie con le quali non mi riuscì di vedere qualcosa di diverso dal pianto e dalle lamentele per il lutto che vivevano. L’immagine del padre sembrava quella, che poi ebbi modo di scoprire nei miei confronti: “un morto che cammina”. E lui che si ritraeva e seguiva quel movimento di commiserazione.
Un morto che cammina
Lo trovavo ripiegato su se stesso in uno stato pietoso di auto commiserazione; lasciava fare alla moglie ogni cosa. Era chiaro che il suo stato d’animo seguiva una logica di annientamento personale e così appariva affranto e sconsolato. Coerentemente esprimeva limiti per quanto si poteva attendere da lui circa l’iniziativa, l’autonomia e la cura delle cose più semplici della sfera personale. Non era più in grado di alzarsi dal letto per andare in bagno anche se avevo avuto modo di verificare in più di una occasione che all’occorrenza, di notte, lo faceva. Una notte rimanemmo a parlare a lungo nei pressi dei bagni e lui mi parlava e si esprimeva in modo assolutamente normale cioè dimostrando di essere in grado di fare ne più ne meno quello che facevo io. Fu l’inizio della fine.
Nei giorni che seguirono cercai di mettermi in contatto telefonico con lui – abitava in provincia di Bergamo – ma non mi rispondeva. Quando parlai con la moglie un mese dopo mi disse che era caduto in una depressione tale che si era isolato completamente dal mondo e la malattia era progredita. Le sue condizioni peggiorarono per cui subì un ulteriore intervento chirurgico dopo la chemioterapia.