Capacità di essere solo in presenza di altri
LA CAPACITA’ DI ESSERE SOLO IN PRESENZA DI ALTRI
La capacità di un individuo di essere solo in presenza di altri rappresenta uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo affettivo. (D. Winnicot: “Sviluppo affettivo e ambiente”).
In quasi tutti i trattamenti psicoanalitici vi sono momenti in cui la capacità di stare solo è importante per il paziente. Clinicamente ciò può essere rappresentato da una fase o da una seduta di silenzio, e questo silenzio, lungi dall’essere un segno di resistenza, si rivela per una conquista del paziente.
Forse è a questo punto che il paziente è stato capace di restar solo per la prima volta.
Desidero richiamare l’attenzione proprio su questo aspetto del transfert, in cui il paziente è solo nella seduta.
E’ forse esatto dire che nella letteratura psicologica è stato scritto di più sulla paura di essere solo, o sul desiderio di essere solo che non sulla capacità di essere solo; inoltre è stata compiuta una innumerevole mole di lavoro sullo stato di ritiro, un’organizzazione difensiva che implica una attesa di essere perseguitato.
Mi pare che a questo punto il tempo sia più che maturo per una discussione sugli aspetti positivi della capacità di essere soli.
Dopo il rapporto sessuale
E’ forse giusto dire che dopo un rapporto sessuale soddisfacente ciascun partner è solo ed è contento di essere solo. L’essere capace di godere di essere solo assieme ad un’altra persona che è pure sola è in se una esperienza sana . La mancanza di tensione istintuale può produrre angoscia, ma l’integrazione della personalità nel tempo permette all’individuo di attendere il naturale ritorno della tensione istintuale e di godere del condividere la solitudine – una solitudine che è relativamente libera dalla qualità del ritirarsi.
Nella masturbazione, l’intera responsabilità per la fantasia conscia e inconscia è accettata dal singolo bambino, che è la terza persona in una relazione triangolare. L’essere capace di essere solo in queste circostanze implica una maturità nello sviluppo libidico, una potenza genitale o la corrispondente capacità femminile di accettare; implica la fusione delle pulsioni e delle idee aggressive e libidiche e implica una tolleranza dell’ambivalenza; insieme a tutto questo ci sarebbe naturalmente una capacità da parte dell’individuo ad identificarsi* con ciascuno dei genitori.
La capacità di essere soli è quasi sinonimo di maturità emotiva.
I rapporti diadici e triangolari
Rickman ci ha insegnato a pensare in termini di rapporti diadici e triangolari.
Spesso consideriamo il complesso edipico come uno stadio in cui i rapporti triangolari dominano il campo dell’esperienza, ed ogni tentativo di descriverne il complesso edipico in termini di relazione duale è destinato a fallire. Nondimeno i rapporti diadici esistono e fanno parte di stadi relativamente precoci della storia dell’adulto.
Il rapporto diadico originario è quello del lattante con la madre o col sostituito materno […].
Dopo aver discusso di rapporti triangolari e diadici, è naturale che si faccia ancora un passo indietro e si parli di un rapporto monadico.
L’essere solo di fatto
Noterete che qui non sto parlando dell’essere solo di fatto. Una persona può trovarsi relegata in solitudine eppure non essere capace di stare sola e allora non si può immaginare quanto debba soffrire. Molte persone acquisiscono però la capacità di godere della solitudine prima di superare l’infanzia e possono persino giungere ad apprezzare la solitudine come un bene assai prezioso.
La capacità di stare solo è un fenomeno altamente raffinato, che nello sviluppo di una persona può presentarsi dopo l’istituirsi di relazioni triangolari , o anche è un fenomeno del primo periodo di vita che va studiato con particolare attenzione perchè la forma raffinata della solitudine si fonda su di esso.
Paradosso
Posso ora formulare il punto principale del mio contributo. Sebbene molti tipi di esperienza contribuiscano alla formazione della capacità di essere solo, ve n’è uno che è fondamentale e senza il quale tale capacità non si instaura: è l’esperienza di essere solo da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo, la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona.
Qui è implicito un tipo piuttosto particolare di rapporto: quello fra il piccolo bambino che è solo e la madre o il sostituto materno, che è di fatto attendibilmente presente anche nel momento in cui è rappresentata da un lettino o da una carrozzina o dall’atmosfera generale dell’ambiente circostante. Vorrei suggerire un nome per questo tipo particolare di rapporto. […].
La capacità relazionale dell’Io
La capacità relazionale dell’Io si riferisce al rapporto fra due persone, una delle quali, in ogni caso è sola; forse entrambe sono sole, ma la presenza di ciascuna è importante per l’altra.
Penso che se si confronta il significato dell’espressione “mi piace” con quello della parola “amore” si può notare che il piacere è più una questione di relazionalità dell’Io, mentre amore è più una questione di relazioni fondate sull’Id, o grezze o in forma sublimata.
L’essere solo in una situazione immatura
A questo punto ci si porrà il problema: può un bambino essere solo in uno stadio molto precoce, quando l’immaturità dell’Io rende impossibile una descrizione della solitudine nei termini che abbiamo usato? La sostanza della mia tesi è che dobbiamo poter parlare di una forma non raffinata dell’esser solo e che, anche se siamo convinti che la capacità di essere veramente solo è altamente raffinata, tale capacità ha come base l’esperienza precoce di essere solo in presenza di qualcuno.
L’essere solo in presenza di un’altra persona può verificarsi in uno stadio molto precoce, quando l’immaturità dell’Io è naturalmente equilibrato dal sostegno dell’Io fornito dalla madre. Con il passar del tempo , l’individuo introietta la madre che da sostegno all’Io ed in questo modo diventa capace di esser solo senza aver bisogno di far frequente riferimento alla madre o al simbolo materno.
“Io sono solo”
Vorrei affrontare questo argomento studiando le parole “Io sono solo”.
Innanzitutto c’è la parola “Io”, che implica un notevole sviluppo emotivo, e cioè: che l’individuo si sia strutturato come unità; che l’integrazione sia ormai un dato di fatto; che il mondo esterno sia stato ripudiato e che sia diventato possibile un mondo interno. Fin qui abbiamo solamente una descrizione fotografica della personalità come di una cosa, come una organizzazione dei nuclei dell’Io; nessun riferimento è ancora fatto al vivere.
Poi vengono le parole “Io sono”, che rappresentano uno stadio nello sviluppo individuale. Queste parole danno all’individuo non solo forma, ma anche vita. Agli inizi dell’ “Io sono” l’individuo è (per così dire) grezzo, indifeso, vulnerabile, potenzialmente paranoide. L’individuo può realizzare lo stadio dell” Io sono” solamente perchè esiste un ambiente che lo protegge; quest’ambiente è di fatto costituito dalla madre tutta presa dal proprio bambino e orientata verso le richieste dell’ Io del figlio tramite la propria identificazione con lui. Non c’è bisogno di postulare una consapevolezza della madre da parte del bambino in questo stadio dell’ “Io sono”.
Vengo ora alle parole “Io sono solo”.
Secondo la teoria che sto esponendo, questo stadio implica l’apprezzamento da parte del bambino della continuità dell’esistenza della madre. Con ciò non intendo necessariamente una consapevolezza della mente cosciente; bensì ritengo che l’ “Io sono solo” costituisca uno sviluppo dell’ “Io sono” dovuto alla consapevolezza che il bambino ha della continuità dell’esistenza di una madre attendibile, la cui attendibilità rende possibile al bambino di essere solo e di godere il proprio esser solo per un tempo limitato.
In questo modo cerco di dar ragione del paradosso secondo cui la capacità di essere solo è basata sull’esperienza di essere solo in presenza di una persona, e secondo cui, se questa esperienza non è stata sufficiente, la capacità di essere solo non può svilupparsi.
In definitiva, W. Spiega la Relazionalità dell’Io attribuendo al rapporto con la madre dell’infante “la materia di cui è fatta l’amicizia” e “la matrice del transfert”.
Soltanto quando è solo (cioè, solo in presenza di qualcuno) il bambino può scoprire la propria vita personale.
L’alternativa patologica è una vita falsa, costruita su reazioni istintive agli stimoli esterni.
[Ciò rappresenterebbe la base di un sistema di regolazione degli impulsi che funzioni al meglio.]
Quando è solo, e solamente quando è solo nel senso suddetto, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè, è in grado di diventare non integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un pò senza essere nè qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, nè una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento.
E’ in tal modo che si costituisce la precondizione per un’esperienza dell’Id; grazie a questa precondizione e nel suo contesto, una sensazione o un impulso, quando arriveranno, sembreranno reali e costituiranno una esperienza personale autentica.
L’individuo che ha sviluppato la capacità di essere solo è sempre capace di riscoprire l’impulso personale, e questo non viene sprecato perchè la situazione di solitudine è qualcosa che – sia pure paradossalmente – implica sempre la presenza di un’altra persona.
Col passare del tempo, l’individuo diventa capace di rinunciare alla presenza reale di una madre o di una figura materna.
Questo articolo è una conferenza che l’autore svolse nel 1957 e viene riportata escludendo quelle parti che potrebbero risultare particolarmente complesse. E’ tratta dal volume “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando editore.
*Identificazione, rispondere ad un sorriso con un sorriso. Essendo capace di identificarsi con la madre ( e in generale, successivamente, con tutte le persone con cui stabilisce una relazione) l’individuo può lasciare da parte una buona dose dell’enorme odio che sente verso ciò che sfida la sua onnipotenza.
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