E’ vero solo se ci credi
Percezione e consapevolezza
Tratto dal libro “TERAPIA BREVE DEGLI ATTACCHI DI PANICO
(È vero solo se ci credi)
In questo scritto voglio dimostrare che la paura è una emozione consapevole mentre percepire è una reazione inconsapevole.
La distinzione tra loro ha implicazioni importanti nella percezione del panico per la cura di questo disturbo.
Immaginate di percorrere un sentiero campestre e mentre camminate tranquilli all’improvviso vedete davanti a voi una forma di serpente.
La prima reazione che avrete sarà di spavento e avrete un soprassalto, il cuore batte forte. Davanti a voi c’è una serpe.
Prima ancora che pensiate a scappare, cioè, quasi subito vi accorgete che è solo un ramoscello con una forma sinuosa e immediatamente vi calmate. Fate un respiro di sollievo per lo scampato pericolo. Avete avuto paura.
Esaminiamo cosa è successo dentro di voi, nella vostra mente, per spiegarci cosa significa agire sulla percezione.
Al cospetto della minaccia di un pericolo sentiamo arrivare la reazione di allarme la quale scatena una reazione a cascata di risposte automatiche alla paura: brivido, accelerazione del battito, aumento della frequenza respiratoria, restringimento dei vasi e delle arterie, alterazione della sensibilità al dolore e altre alterazioni somatiche.
Il sobbalzo alla vista del ramoscello che sembrava un serpente è avvenuto senza l’intervento del pensiero e le alterazioni somatiche sono state le conseguenze. Si chiama reazione di allerta e ci prepara biologicamente alla reazione attacco-fuga.
Solo dopo questa reazione immediata e inconsapevole capite che si trattava di un semplice stecco ripiegato con una forma particolare.
Chiamiamo percezione la reazione impulsiva che ci ha bloccati ed ha attivato il nostro sistema d’allarme.
La reazione istantanea non andrebbe definita paura in quanto appartiene ad un sistema percettivo innato di cui siamo provvisti assieme a tutti gli altri mammiferi.
L’istinto della paura risulterebbe il dato grezzo che nasce dal cervello arcaico (il sistema limbico connesso all’amigdala) il quale reagisce in pochissimo tempo proprio perché deve rispondere immediatamente ad una minaccia.
Costituisce la via breve della reazione (Il circuito di Papez). Praticamente, è ciò che mette subito in allerta l’individuo davanti a un pericolo reale o solamente percepito tale.
Non appena la mente è in grado di “capire” che non c’è nulla da temere, stacca il processo e interrompe la reazione.
La via breve del nostro cervello arcaico rappresenta il precursore del pensiero, mentre il sentimento della paura, dal momento che usa il pensiero, la ragione, costituisce la via evoluta che ci mette in grado di rispondere in modo alternativo.
Quindi, il precursore della paura nasce da una percezione della situazione che si organizza via via in paura allorquando la mente sarà in grado di registrarla come tale. Impariamo col tempo ad apprendere quali sono gli stimoli che ci fanno paura e quali abbiamo appreso a conoscere e che non ci fanno più paura.
Le reazioni alla caduta, ovvero tutte le risposte automatiche che fa il corpo quando, ad esempio, si inciampa (per fare un esempio) appartengono a un
ambito distinto ma collegato alla paura di cadere.
Nella paura di cadere mettiamo in atto il pensiero appreso di tenerci a debita distanza dagli strapiombi. Le differenze individuali sono poi responsabili della paura di affrontare come accade ad esempio nella paura del vuoto.
Possiamo dire che le reazioni individuali davanti un evento percepito “pericoloso“ subisce alterne vicende.
Le conseguenze della paura sono evidenti nei comportamenti e nelle scelte che facciamo. In primo luogo un pericolo costante ci costringe ad abbassato l’asticella nella percezione del pericolo.
Sottoposti ad una paura costante e spesso percepita come fuori dalla nostra portata rinunciamo ad affrontarle e si fa strada in noi la preoccupa
zione di non essere in grado di affrontare certe situazioni. Per questo motivo potremmo sviluppare una paura di avere paura e ne rifuggiamo al solo pensiero.
Può accadere che nei confronti della paura di avere paura viene attivato il ciclo paura – panico ma questa volta in assenza dello stimolo pauroso. Può accadere in quelle occasioni molto stressanti della vita che sono un fatto a cui nessuno può sfuggire in quanto inevitabili, come la morte di congiunti o incidenti.
Quando la paura viene costruita ha modo di diventare altro. Allora si parla di angoscia, di panico o timor panico.
Lo stato d’animo di angoscia nasce dalla percezione di uno stato d’allerta costante anche in assenza dello stimolo naturale di paura.
In breve, accade che si percepiscono alcune alterazioni del corpo e ci si spaventa; lo spavento provoca ulteriori alterazioni del corpo fino a generare un circuito che scatena il panico, la fuga o la ricerca di rassicurazioni.
Il passaggio dalla paura al panico diviene un processo continuo dove il pensiero non è più in grado di intervenire e trasformare la percezione di paura.
Ecco perché dal momento che l’ansia eccessiva è all’origine di gravi difficoltà deve essere affrontata e alleviata con un comportamento appreso volutamente e praticato con sistematicità.
Ad esempio, coloro che sono ossessionati dalla paura di commettere qualcosa di brutto senza che lo vogliano, come per esempio accoltellare la moglie nel sonno o buttare il figlio appena nato dalla finestra, vivono nell’angoscia sebbene non lo farebbe mai.
Basta il pensiero martellante nella loro testa a farlo diventare una sofferenza inaudita.
“Sono contrario ai rapporti prematrimoniali, fanno arrivare tardi alle cerimonie”
Woody Allen
II
Il controllo
Come si fa a gestire la situazione prima che si inneschi la sequenza micidiale che porta all’ossessiva paura di avere un infarto, di morire, di perdere il controllo?
Vediamo da dove nasce e come si irrigidisce il sistema della paura rinfocolata dalle cattive abitudini ad evitare di affrontare e rifugiarsi nell’isolamento.
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- Un antico racconto indiano parla di un uomo che andava per le strade facendo strani segni. Quegli strani movimenti sembrava volessero scacciare qualcosa mentre in realtà non c’era assolutamente niente e nessuno da scacciare poiché non si vedeva niente o nessuno nei paraggi. Un ragazzo allora si decise e domandò all’uomo quale fosse il motivo di quegli strani movimenti. L’uomo rispose che in quel modo “scacciava gli elefanti”.
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“Ma come”, si affrettò a rispondere il ragazzo, “qui non ci sono elefanti da scacciare. Per l’appunto”, rispose l’uomo, “li tengo lontani con i miei movimenti. Sto, infatti, scacciando gli elefanti, come ti avevo detto”.
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- Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario: lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi. Durante la marcia si fermò a un tempio scintoista e disse ai suoi uomini: “Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo, siamo nelle mani del destino”. Nobaluga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà. “Nessuno può cambiare il destino” disse a Nobaluga il suo aiutante dopo la battaglia. “No davvero” disse Nobaluga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt’e due le facce.
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Questo secondo racconto, tratto da “Le 101 novelle zen”, vi presenta una versione di segno completamente diverso rispetto a quella dell'”uomo che scacciava gli elefanti”.
Mentre la storia dell’uomo che scacciava gli elefanti rappresenta un modo di vedere la realtà popolato di fantasmi e minacciosa, questa del comandante racchiude in sé la saggezza di anticipare un evento positivo e così facendo determinarlo.
Tra il potere ed il controllo si cela il raziocinio. Purtroppo, la cognizione non è così logica come si credeva, né le emozioni così illogiche.
Si ritiene oggi che il pensiero normale non usi le regole puramente ragionate della logica. In alcune ricerche si evince che le persone traggono conclusioni logicamente sbagliate dimostrando così che la mente umana come macchina da logica formale è piuttosto scadente.
Le persone sono razionali ma approdano alla razionalità seguendo non le leggi della logica formale, bensì dei modelli mentali, degli esempi ipotetici tratti da esperienze fatte nella vita reale o da situazioni immaginarie. In realtà sembra molto realistico un aspetto razionale delle emozioni ovvero, le emozioni non sono per forza irrazionali.
Oggi possiamo affermare con una certa approssimazione che la distinzione logico/illogico o razionale/irrazionale è piuttosto sfumata quando si tratta di separare l’emozione dalla cognizione. Sarebbe dunque meglio considerare gli stati emotivi soggettivi, e tutti gli altri stati di coscienza, come il prodotto finale di una elaborazione dell’informazione che si svolge inconsciamente.
La suggestione gioca un ruolo non secondario nel modo di concepire la realtà.
Solo due esempi, uno riguarda la fede, l’altro il giocatore d’azzardo.
I fedeli invocano Dio per non incorrere nel peccato secondo una delle forme scelte dal prete il quale può incidere sui fedeli con toni di svariata intensità, da semplici incitamenti a più o meno intense manifestazioni emotive e di sollecitazioni varie.
A solo scopo esplicativo ne riporto la seguente: “…infondi in noi il timore dei santi comandamenti, affinché, calpestati i desideri carnali, noi sappiamo rientrare nel progetto Divino, restaurato per noi da Gesù sulla Croce, mediante il nostro trascorrere la vita, meditando ed operando nella Divina volontà”.
In questa invocazione la forza suggestiva è in grado di cambiare la realtà interiore di modo che le conseguenze sulle persone possono raggiungere risultati importanti e talvolta inimmaginabili.
Il giocatore d’azzardo viene spinto a giocare dall’idea che questa sia la volta buona per vincere nonostante le ripetute volte che ha perso e nonostante sia consapevole che le macchine hanno un programma fatto apposta per farlo perdere salvo rare vincite pure programmate.
III
Effetti del paradosso: il “desiderio invertito”
A Vienna all’inizio del secolo scorso un giovane si gettò nel fiume Danubio con l’intenzione di suicidarsi. Un gendarme che si trovava nelle vicinanze intervenne tirando fuori il fucile e intimando al giovane di uscire immediatamente dall’acqua altrimenti non avrebbe esitato a sparargli. Il giovane uscì dal fiume senza rendersi conto di ciò che stava accadendo.
L’aneddoto riportato ci può aiutare a comprendere che nel sistema percettivo e reattivo del giovane la minaccia del poliziotto confliggeva con la sua idea di farla finita. Il sistema in cui egli si trovava coinvolto non gli diede adito di riflettere sulle conseguenze a cui avrebbe portato la situazione. Nel suo sistema logico egli poteva ritenere la minaccia inutile in quanto in qualsiasi modo avrebbe portato a compimento la sua decisione. Ma qualcosa gli intimava di rispettare quel comando e così in modo paradossale gli fu salva la vita.
Comma 22
Nel romanzo di J. Heller, Comma 22[1], Yossarian è un pilota americano durante la seconda guerra mondiale che sente di diventare pazzo per le continue incursioni aeree che è costretto a compiere. Yossarian ne parla con il dottor Daneeka, l’ufficiale medico di volo. L’ufficiale medico, usando come esempio un altro pilota, un certo Orr:
“E’ pazzo Orr?”,
“Certo che lo è”, disse il dottor Daneeka,
“Puoi esonerarlo?”,
“Certo che posso. Ma prima lui deve chiedermelo. Questo fa parte della regola”.
“E allora perchè non te lo chiede?”.
“Perchè è pazzo”, disse il dottor Daneeka. “Deve essere pazzo per il fatto che continua a volare dopo aver sfiorato la morte così tante volte. Certo, posso esonerare Orr. Ma prima deve chiedermelo lui”,
“Questo è tutto quello che deve fare per essere esonerato?”,
“Questo è tutto. Basta che me lo chieda”,
“Allora, dopo che lui te l’ha chiesto, puoi esonerarlo?”,
“No, dopo non posso esonerarlo”,
“Vuoi dire che c’è un comma (Catch si traduce anche con “tranello” in inglese)?”,
“Certo che c’è un comma”, rispose il dottor Daneeka. “Il comma 22. Tutti quelli che desiderano essere esonerati dal volo attivo non sono veramente pazzi[2]”.
Un paradosso, è un ragionamento che appare contraddittorio, ma che deve essere accettato, oppure un ragionamento che appare corretto, ma che porta a una contraddizione: si tratta, secondo la definizione che ne dà Mark Sainsbury, di “una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile”.
Il paradosso più antico è quello di Epimenide Cretese, che diceva: “Tutti i cretesi sono bugiardi.” Se Epimenide dice la verità, la sua affermazione non è valida, in quanto è membro di una classe – i Cretesi – che è stata definita come una classe di mentitori. Se Epimenide dice il falso e tutti i cretesi non sono bugiardi, la sua affermazione non è valida, perchè sta includendo sé stesso, un bugiardo, in una descrizione dei membri di una classe composta di persone che dicono la verità. (Da Gurman e Kinskern).
Le tecniche paradossali fanno parte integrante di molti approcci terapeutici e vengono impiegate da molto tempo. Ogni sistema che ricorre a tecniche paradossali fornisce una diversa spiegazione teorica della loro efficacia. Ad esempio, l’approccio adleriano tendeva ad evitare qualsiasi lotta per il potere con il paziente in quanto egli tentava spesso di svalutare il terapeuta esprimendo dubbi o facendo critiche, dimenticando molte cose ed esprimendo tentativi di sabotaggio nei confronti della terapia. Dunlop nel 1946 affermava il principio su cui si basa l’esercizio negativo. Viene definito con:
“fare uno sforzo per fare quelle cose che finora ci si è sforzati di non fare, anziché fare uno sforzo per evitare di fare le cose che finora si sono fatte”.
Fra tutti i precursori della psicologia paradossale Frankl è quello che ha dato il più rilevante contributo. Ha individuato nel comportamento fobico la tendenza ad evitare le situazioni che provocano angoscia e in quello ossessivo-coatto (oggi si direbbe ossessivo – compulsivo) di reprimere e dunque di combattere le idee che lo minacciano. In entrambi l’esito è il rafforzamento del sintomo. L’ansia anticipatoria che Frankl (1939) chiamava l’intenzione paradossale è l’ansia di attesa temuta che provoca il problema.
L’intenzione paradossale interrompe il circolo vizioso riducendo o eliminando l’ansia di attesa e la condizione insopportabile. Quella di Frankl non era come oggi la terapia breve in quanto un intervento protratto sarebbe stato in grado anche di cambiare l’atteggiamento verso la propria nevrosi con il riorientamento esistenziale. La sua psicologia dell’anima venne chiamata anche Logoterapia.
La situazione si presenta come viene descritta in un caso riportato da Frankl nel suo libro Logoterapia.
Un giovane medico afflitto da una grave idrofobia (gli sudavano molto le mani) incontrò per strada il suo primario e, protendendo la mano per salutare si era accorto che la sua traspirazione era maggiore del solito. Quando successivamente si trovò in una situazione simile, si aspettò nuovamente una traspirazione, e questa sua ansia di attesa provocò una sudorazione eccessiva. Era un giro vizioso: l’iperidrosi provocava l’idrofobia e l’idrofobia a sua volta produceva l’iperidrosi. Consigliammo al paziente nel caso avesse dovuto ripresentarsi la stessa ansia d’attesa, di decidere deliberatamente di mostrare alle persone in cui si imbatteva, fino a che punto potesse veramente traspirare. Tornò dopo una settimana a dirci che ogni qualvolta incontrava persone che facevano scattare in lui la sua ansia d’attesa, diceva a sé stesso: ”Prima ho sudato un litro soltanto, ma ora voglio tirarne fuori almeno dieci”.
Nel nostro campo viene descritto l’intervento che il centro MRI (Mental Reaserch Institut) riportò nella sua casistica di interventi paradossali volti a ottenere un cambiamento risolutore.
È sorprendente come i teorici della comunicazione utilizzando il paradosso e svariate forme comunicative sappiano arrivare alla risoluzione di certe problematiche che deviano certe persone dall’equilibrio psicologico.
Heisenberg (1958) afferma che “La realtà di cui noi parliamo non è mai una realtà “a priori” ma una realtà conosciuta e creata da noi”.
Il principio che ora consiste nella tecnica della peggiore fantasia viene espresso da Dunlop come condurre sotto il controllo volontario cose che sinora sono state involontarie.
IV
Il cambiamento
Con l’utilizzazione del metodo paradossale possiamo produrre cambiamenti che agiscono senza fare ricorso all’ acquisizione di consapevolezza.
Nell’ottica costruttivista i problemi umani vengono ad essere considerati come una interazione tra il soggetto, il suo ambiente e le relazioni che costruisce (la realtà personale) e la complessa interazione e retroazione che stabilisce.
Accade talvolta che proprio gli sforzi che l’individuo compie in direzione del cambiamento lo portano lontano da quel cambiamento che più desidera.
La tecnica denominata inversione del desiderio serve a imparare a vincere l’atteggiamento evitante la sofferenza.
Nella ricerca del cambiamento percorriamo sempre le strade conosciute ed è per questo che non riusciamo ad ottenerlo. Una metafora del cambiamento mai riuscito è rappresentata dal quesito cosiddetto dei nove punti.
Le persone quando devono fare attraversare nove punti da 4 linee rette, senza mai sollevare la penna dal foglio, provano e riprovano passando sempre per le stesse tentate soluzioni, cioè quelle che ripercorrono una figura quadrangolare rimanendo sempre nel quadrato rappresentato dai nove punti. Pochissime ci riescono (a me tra gli amici, mai nessuno senza un piccolo aiuto). La risoluzione del problema non dipende dall’intelligenza ma richiede il possesso di un pensiero creativo divergente che vada, cioè, fuori dagli schemi usuali della tendenza che tutti abbiamo alle peculiarità percettive una volta definite dalla teoria della gestalt.
Per risolvere il problema dei 9 punti c’è bisogno di un “salto logico”, che permette la fuoriuscita dallo schema dentro il quale tutti siamo abituati a risolvere i problemi in quanto sarebbe impossibile risolverlo utilizzando quella che i teorici del costruttivismo chiamano realtà di primo ordine. Ci vuole una realtà di secondo ordine, quella che viene descritta partendo da un sogno per cui l’unico modo per uscire da un sogno implica il cambiamento dal sognare all’essere sveglio”. Tutti gli altri cambiamenti che avvengono nel sogno finché rimaniamo a sognare, sono descritti come cambiamenti di primo ordine.
Nel caso che vi presento di seguito, una segretaria di un’azienda aveva il problema di rispondere per le rime a un dirigente il quale, in tali occasioni, reagiva offendendola. Quest’uomo sembrava irritato dall’atteggiamento di sicurezza ostentato dalla donna.
L’invenzione di Bellac[3]
Una donna svolgeva il lavoro di segretaria. Il capufficio mostrava segni di supremazia e ritorsione ogni volta che la donna commentava con propositi positivi il da fare. La cosa era diventata difficile e stava in procinto di licenziarsi.
Consultò gli esperti del MRI, il gruppo storico di esperti di strategia comunicativa del Centro di Palo Alto in California per un aiuto. Dopo un esame della situazione il gruppo chiese alla donna che, al prossimo comportamento aggressivo di lui avrebbe dovuto chiamarlo in disparte e dirgli: “E’ da tanto tempo che volevo dirglielo, ma non sono mai riuscita a trovare le parole… E’ una follia, ma quando mi tratta come ha fatto prima mi sento rimescolare tutta. E’ un turbamento che mi sfugge… Non so spiegarmelo… Forse c’entra con mio padre”. Subito dopo doveva uscire alla svelta dalla stanza prima che lui potesse dire una parola.
Quando ritornò raccontò agli specialisti che proprio il mattino dopo quella seduta il comportamento del direttore era improvvisamente cambiato e che da quel momento era stato educato e conciliante sebbene lei non avesse messo in atto il comportamento suggerito.
Gli autori così commentano l’accaduto.
“Se ci fosse bisogno di una prova che la realtà è ciò che abbiamo convenuto di chiamare realtà, tale forma di cambiamento potrebbe fornircele. A rigor di termine nulla era veramente cambiato nel senso che non c’era stata tra quelle due persone nessuna comunicazione o azione esplicita. Ma a rendere efficace questa forma di soluzione dei problemi è il fatto che l’interessato sappia di poter ora affrontare in modo diverso una situazione che in precedenza gli sembrava minacciosa. Il cambiamento prodotto non è il risultato di un insight (comprensione) ma di una percezione che ha agito anche se il comportamento prescritto non è mai stato effettivamente adottato.”
[1] Comma-22 è la nuova serie Hulu che porterà sul piccolo schermo il romanzo scritto da Joseph Heller e avrà tra i suoi protagonisti Kyle Chandler e George Clooney.
[2] Dal romanzo è stato tratto un film recentemente.
[3] Tratto da: Change di P. Watzlawick, 1974
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