E’ una pura follia!*
* Storia vera tratta dal libro: “Caso e Destino“
Un modo che coniuga l’intuito, l’immaginazione e la grande forza espressiva e comunicativa è stato usato da Milton H. Erickson a scopo terapeutico.
Nel caso che vi presento qui di seguito l’autore utilizza anche la suggestione del paradosso di cui si serve per mettere il paziente nelle condizioni di superare una condizione penosa di cui soffriva e che lui si ostina a chiamare una fobia.
Secondo l’autore il caso clinico non è trattato con una psicoterapia vera e propria ma con un procedimento non convenzionale il quale trasformò un sintomo grave in un grosso fastidio per il paziente, fastidio che venne poi eliminato. “Si trattò di una semplice rimozione del sintomo che mise il paziente in grado di avere un’adeguata funzionalità”.
Il paziente pur avendo una personalità schizoide (tendenza all’isolamento) chiedeva che gli venisse, eliminata la fobia che consisteva nel fatto di riuscire a guidare l’auto soltanto in certe strade della città e di arrivare alla città vicina una quindicina di chilometri solo per una determinata autostrada. Vi era anche un’altra strada per la quale aveva cercato spesso di uscire senza tuttavia riuscire a superare i confini. Se l’auto oltrepassava il segnale indicatore di fine dell’abitato, egli era colto da nausea e vertigini, vomitava o aveva conati di vomito, poi aveva uno svenimento che a volte gli durava da dieci a quindici minuti.
Il fratello, il cognato e vari amici l’avevano accompagnato più volte in quella strada, ma non faceva alcuna differenza che al volante ci fossero loro oppure lui. Se guidavano loro e proseguivano fino a quando non si fosse riavuto dallo svenimento, questo si ripeteva e continuava a ripetersi fino a che l’auto non si fosse fermata. Accadeva la stessa cosa quando guidava in città per cui spesso era costretto a parcheggiare sulla strada principale e a recarsi a piedi a destinazione. In tutte le arterie principali che portavano fuori dalla città a eccezione di una sola, non poteva neppure superare i limiti dell’abitato senza svenire, anche quand’era in compagnia di parenti o amici. Era questo e soltanto questo il disturbo per il quale voleva essere curato. Gli altri psichiatri si erano rifiutati di accettarlo a queste condizioni, dichiarando di non poterlo aiutarlo se avesse posto delle limitazioni alla terapia. Poiché il paziente continuava a tenere un atteggiamento ostinato ed esigente gli fu data la solenne promessa che l’autore non avrebbe fatto alcun altro tentativo oltre a quello di guarirlo dal disturbo riguardante la guida dell’auto.
Quando fu accettata la reciproca disponibilità l’autore consegnò una busta con su scritto a grandi caratteri: “Chiunque abbia la curiosità di sapere cosa mi è successo, apra questa busta”. All’interno, su carta intestata dell’autore, vi era questa semplice dichiarazione:”Questa persona è un mio paziente e sta seguendo le mie disposizioni mediche. Se lo si trova in stato di incoscienza , bisogna attendere almeno un quarto d’ora. Dopo di che egli si avrà dallo svenimento e sarà in grado di rispondere in modo soddisfacente alle vostre domande”.
Si ordinò poi al paziente di prendere alle 3 del mattino seguente la strada che portava alla periferia della città vestito con il vestito migliore, appuntare sul davanti del vestito in modo ben visibile la busta. Poco prima di giungere alla fine dell’abitato doveva dirigersi verso l’ampia banchina laterale di quell’arteria. Raggiunto il segnale stradale di fine abitato doveva mettere il motore in folle, poi spegnerlo, arrivando a motore spento o frenando appena al di là del segnale, uscire dall’auto, precipitarsi nel basso fossato, sdraiarvisi sulla schiena, faccia all’insù e rimanervi almeno per un quarto d’ora. Poi doveva alzarsi , togliersi la sabbia dal vestito, risalire in macchina, mettere in moto, inserire la prima marcia, procedere per un tratto pari alla lunghezza di un paio di autoveicoli, fermarsi, spegnere il motore, tirare il freno a mano e sdraiarsi di nuovo nel fosso come prima per un altro quarto d’ora.
Doveva ripetere questo procedimento più volte fino a quando non fosse riuscito a guidare da un palo del telefono al successivo, poi dal secondo al terzo, fermandosi alle prime avvisaglie di qualsiasi sintomo e distendendosi ogni volta nel fosso, sulla schiena per una quindicina di minuti.
A tutto ciò il paziente rispose con: “ Ma è una pura pazzia”. L’autore replicò:”D’accordo ma lei vuole curare il sintomo ed è ciò che dovrà fare. Lei mi ha fatto una promessa e io le ho fatto una promessa”. Il paziente accettò con rassegnazione.
Alle 9 di sera venne a casa dell’autore e dichiarò: “Dopo essermi sdraiato nel fosso per una decina di volte, ho cominciato a sentirmi un perfetto imbecille. Sono tornato in macchina e mi sono messo a guidare da un palo telefonico al successive poi fino alla curva che vedevo di fronte a me; allora ho cominciato a interessarmi al paesaggio. Ho guidato per tutto il percorso sia all’andata che al ritorno per la città. All’inizio ero terrorizzato e mi sono sentito spaventatissimo anche la prima volta che mi sono disteso nel fosso. Quando mi sono tolto la sabbia dal vestito la faccenda non mi piaceva affatto. Pensavo che era stata una follia strapparmi quella promessa, e più ci pensavo più mi infuriavo; così ho smesso di pensarci e ho cominciato a godermi la gita”.
Questo caso dimostra che il paziente riuscì a trarre beneficio da un intervento mirato all’unico scopo di eliminare un sintomo come del resto si verificò ma non riuscì ad ottenere altri vantaggi dalla psicoterapia a cui non voleva assolutamente sottoporsi per i suoi disturbi molteplici della personalità.
L’aspetto, però più singolare è quello paradossale.
Milton Erickson è oggi famoso per essere il precursore di tale tipo di intervento. Si confronti questa strategia con quella della “conta dei fagioli” richiamata prima e si noteranno aspetti simili nell’approccio. Il paradosso viene spesso usato per “convincere” qualcuno a smettere un atteggiamento incoerente contrapponendone uno altrettanto incoerente e irrazionale o “pazzesco”.