Attaccamento e sicurezza in se
Quale relazione esiste tra la capacità di mentalizzare e la percezione psicologica di impotenza?
Sappiamo bene che diverse persone che vivono privazioni simili reagiscono in modo diverso.
Ciascuno reagisce, cioè, in modo diverso davanti alle frustrazioni e alle esperienze negative della vita, ne trae conseguenze diverse e si pone in modo più o meno costruttivo in riferimento alle scelte che ritiene di fare nei vari contesti e nella personale prospettiva temporale.
Lo sviluppo nel bambino di uno stato mentale definito da Daniel Dennett come “atteggiamento intenzionale”, cioè la capacità unica agli esseri umani di cercare di comprendersi in termini di stati mentali (pensieri, sentimenti, desideri, credenze) – al fine di attribuire significato all’esperienza e poter anticipare le reciproche azioni – favorisce l’attribuzione di uno stato mentale agli altri, e rende comprensibile a noi stessi il nostro comportamento (teoria della mente).
La capacità di “mentalizzare”, cioè, riconoscere al figlio fin dall’inizio la capacità di utilizzare la mente (capacità di pensare) e di avere quindi delle intenzioni, fornisce al bambino la base del suo potere personale.
Egli incomincerà da quel momento a definirsi nella sua identità, cioè assumerà la condizione psicologica di responsabilità, come dire l’inizio della sua carriera umana di persona. L’inizio della sua collocazione al mondo.
Non è eccessivo affermare che la mancanza dell’attribuzione di mentalizzare apre all’indeterminatezza, al procastinare sempre più la sua collocazione al mondo come persona.
Entro questo ambito può maturare la percezione di impotenza che sta alla base di una bassa autostima.
E’ stato dimostrato da Fonagy che mamme con la capacità di mentalizzare, cioè, riconoscere al figlio la capacità di utilizzare la mente e di avere quindi delle intenzioni, protegge i figli in quanto fornisce loro i mezzi per costruire la propria identità. I figli dotati di questa capacità saranno in grado di distinguere in seguito nella madre i sintomi depressivi.
“Attribuiranno, cioè, il comportamento apparentemente distaccato della mamma depressa a lei stessa e non alla propria cattiveria o inadeguatezza”, come dice l’autore.
Questa competenza residua nelle mamme depresse durante l’allattamento o in seguito, viene chiamata competenza auto riflessiva e consiste nella capacità del genitore di seguire il pensiero del bambino attraverso la forma comunicativa dello sguardo e dell’accudimento.
Nel comportamento della madre il bambino percepisce sia la sua riflessività, sia l’attitudine nel genitore a fornirgli una immagine di sè stesso come in grado di mentalizzare, desiderare ed avere delle opinioni.
Quando questa rappresentazione viene internalizzata è come se il bambino dicesse:
”La mamma pensa a me come a qualcuno che pensa e dunque io esisto come essere pensante”.
Se la capacità riflessiva mette il genitore in grado di comprendere le attitudini intenzionali del bambino , “il bambino avrà l’opportunità di trovare se stesso nell’altro come capace di avere delle intenzioni. Se la capacità del genitore è carente sotto questo aspetto, la visione di sè che il bambino si formerà sarà quella di stati fisici anzichè quella di stati mentali.”
L’internalizzazione, cioè la conservazione dentro di sè dell’immagine materna, darà al bambino la possibilità non solo di trovare sè stesso nell’altro, ma anche beneficiare di una funzione di contenimento, descritta da Winnicot come “restituire al bambino il proprio sè.”.
“Il fallimento di questa funzione porta a una disperata ricerca di modalità alternative di contenere i pensieri e gli intensi sentimenti che essi generano.
Quando la ricerca di rispecchiamento e di contenimento non ha avuto successo ogni tentativo di separazione darà solo luogo ad un movimento verso la fusione”.
Per Winnicot, in questi casi, più l’individuo cerca di essere se stesso più diventa simile al suo oggetto sbagliato.
2 commenti