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Approccio Strategico Breve e Cognitivo – Comportamentale: differenze

Approccio Strategico Breve e Cognitivo – Comportamentale: differenze

Approccio Strategico Breve e Cognitivo-Comportamentale: quali differenze?

La terapia strategica, agendo sulla percezione è più efficace di quella cognitiva che si basa sulla maturazione di convinzioni specifiche

Abstract

Qui di seguito vengono esposti gli aspetti di formazione e persistenza dei sintomi e gli interventi per il cambiamento definiti dall’approccio strategico, nel disturbo acufene in un soggetto. (Nardone,1995).
Vengono, per l’occasione, riaffermate le principali linee teoriche dell’approccio e viene messo in discussione e criticato il metodo cognitivo comportamentale sia per la sua limitata efficacia che per la lungaggine degli interventi (efficienza).
Si ritiene, inoltre, che l’intervento sulla percezione sia il metodo di elezione dell’approccio strategico, mentre quello cognitivo-comportamentale (CBT) non opera secondo linee guida che prevedono tale tipologia di intervento.
Questa argomentazione viene posta alla base del confronto dell’efficacia tra i due approcci. L’occasione per tale confronto ci viene offerta dalla pubblicazione di un articolo di S Palmieri (Palmieri, 2016).
La terapia del disturbo acufene si avvale da molti anni del contributo della psicologia cognitivo comportamentale (CBT) la quale mette in opera interventi variamente articolati (TRT). Gli indirizzi TRT hanno l’obiettivo di ridurre direttamente la tolleranza del suono (DST) e l’acufene. (P.J.Jastreboff, 1990).
Secondo un recente articolo (S. Palmieri, 2018), “la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace in coloro che soffrono di acufene, in quanto agirebbe sulla percezione e assuefazione piuttosto che sull’ acufene in sé”.
In questo articolo viene posta in discussione l’affermazione dell’autrice del coinvolgimento della percezione, senza peraltro dimostrarlo.

Obiettivo del presente scritto

Non ci risulta che tra le tecniche messe a punto dall’approccio cognitivo sia presente la componente “percettiva” che dovrebbe affrontare la problematica senza che il paziente abbia modo di fare ricorso alla “cognizione”, almeno nelle fasi iniziali, come avviene invece nella terapia strategica (Nardone, 2018). L’applicazione dei presupposti e delle tecniche della Terapia strategica vengono a costituire un caso più unico che raro nel panorama della psicoterapia in generale. Risulta viepiù che la prassi e i protocolli del metodo non vengano divulgati e discussi a sufficienza. L’approccio di Terapia Strategica, rappresentato in Italia da Giorgio Nardone, si candida, invece, ad ottenere risultati verosimilmente più efficaci di quelli messi in atto dalla terapia cognitivo comportamentale proprio perchè “la conoscenza delle cause del disturbo non è necessaria né utile alla soluzione del disturbo stesso”. Serve invece studiare con maggiore approfondimento come il sistema di percezione e reazione funzioni e si candida a “creare” il disturbo acufene.
Il seguente scritto vuole anche offrire una panoramica essenziale ma precisa degli strumenti della terapia strategica, con particolare riferimento ai metodi che consentono allo specialista di avere la meglio sul disturbo.
. L’opportunità ci viene offerta dai risultati promettenti del trattamento di un caso di acufene con i protocolli di terapia adottati nei confronti dei soggetti fobici.

Presupposti teorici

Il Modello della Terapia Strategica Breve (TSB) si basa su di una innovativa teoria sulla paura. Discende direttamente dalla teoria costruttivista e si avvale del contributo della teoria dell’informazione, della teoria dei sistemi che della teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell.
Uno dei più importanti presupposti teorici da cui parte la TSB è che la “realtà” non è una concezione oggettiva ma nasce dalla “costruzione” di essa del singolo e si definisce sulla base della personale interazione e costruzione dell’individuo nella sua interazione continua col mondo e con se stesso.
Ciascuno interpreta e reinterpreta la realtà che assume via, via l’espressione compiuta nel sistema percettivo e reattivo dell’individuo. Le concettualizzazioni diagnostiche tradizionali della psichiatria possono trasformarsi in vere e proprie fonti di patologia indotta dalla comunicazione interpersonale.
Da ciò nascono i presupposti della costruzione della malattia che viene affrontata come problema per non incorrere nell’errore di essere noi stessi a crearlo con l’etichettamento.
Nell’approccio Strategico Breve può essere facile per un medico distinguere lo stato di salute da quello di malattia come deviazione dalla norma, non altrettanto si può dire per la salute emotiva o mentale di un individuo (P. Watzlawick, G. Nardone, 1997).
Un’altro degli aspetti che sottende la teoria e che guida l’intervento è che nella comunicazione e nell’interazione umana prevale il principio della circolarità dell’informazione e non più quello della causalità lineare. In poche parole, non ci dobbiamo più preoccupare della causa, cioè del perché, esso si sia formato ma ci dobbiamo interessare al come esso è emerso e in che modo è stato consolidato, cioè rafforzato.

L’approccio strategico: i precursori

L’approccio strategico alla terapia dei disturbi mentali trova la sua principale espressione nei lavori di G. Kelly (1955) con la “teoria dei costrutti personali”, J. Piajet (1923;1926; 1936) e la sua “epistemologia genetica” e nella terapia di Milton Erickson (1988) della Disseminazione.
L’espressione dei principi teorici si basa sulla teoria costruttivista radicale (H. von Foerster,1987; H. von Foerster, E. von Glasersfeld, 2001; E. von Glasersfeld, 2015).
“La visione del mondo di ciascuno è e rimane sempre un costrutto della sua mente e non si può dimostrare che abbia nessun’altra esistenza” (Schrodinger, 1958).
Heisenberg (1958) afferma che “La realtà di cui noi parliamo non è mai una realtà “a priori” ma una realtà conosciuta e creata da noi” ( Watzlawick e Nardone, 1997).
Bisogna quindi essere rispettosi di questa realtà inventata da ciascuno, studiarla, scoprire come è stata elaborata e su quali eventi e pensieri si è andata strutturando per creare il malessere e la disfunzione che si lamenta.
Esaminiamo adesso le principali tecniche a disposizione dei terapeuti strategici scaturite dallo studio e dalla elaborazione di numerosi autori.

La terapia strategica

L’approccio strategico dei disturbi mentali ha avuto la sua espressione più compiuta nel 1974 nel lavoro di Watzlawick, Weakland e Fisch. Nel lavoro degli Autori viene espressa la summa del lavoro ventennale delle ricerche svolte dal gruppo di Palo Alto sotto la guida teorica di G. Bateson e quella clinica di D.D. Jackson.
La terapia strategica si configura come teoria empirica e creativa. La terapia si avvale della creazione di stratagemmi, costruzioni metaforiche, paradossi, giochi psicologici, sostituzione del sintomo, ristrutturazioni del sistema percettivo reattivo del soggetto che ha “creato” egli stesso il problema e l’ha fatto persistere con un sistema di credenze e con meccanismi di rinforzo sociale. La logica non ordinaria, basata sulla suggestione di stratagemmi antichi e insieme modernissimi, scuote le nostre convinzioni razionali e offre soluzioni inaspettatamente semplici a problemi di natura disparata (Nardone, 2009).

La terapia costruttivista

Il “come funziona” è l’origine del percorso terapeutico dello specialista, il quale, con le sue indagini iniziali, definisce l’insieme delle “tentate soluzioni” del soggetto. Su questa base egli stabilisce un programma fatto di una serie di interventi ad hoc.
La persistenza fa ingigantire il problema stesso del soggetto che diventa più complesso ma anche più semplice sotto certi aspetti. Si tratta essenzialmente del fatto che il soggetto fobico è molto ricettivo in questa fase ed è perciò più disposto al cambiamento.
Nella persistenza, cioè, nell’opera di sclerotizzazione del problema, intervengono le tentate soluzioni del soggetto, che sono per lo più affidate all’aiuto-sostegno dei familiari e al permanente evitamento della situazione temuta.
Per la costruzione del sistema percettivo reattivo dell’agorafobia, ad esempio, la più importante soluzione tentata del soggetto è quella di rinunciare ad allontanarsi da solo e “di scansare tutte le situazioni che possono fare correre il rischio di dover rimanere da solo fuori casa e, talvolta, anche dentro la propria casa” (Nardone, 1995).

Coma nasce un problema
L’uso del paradosso
La ristrutturazione
Come ottenere un cambiamento
Il sistema percettivo-reattivo

 

Formazione e persistenza del problema

La formazione e la persistenza del problema si riferiscono al sistema percettivo e reattivo del soggetto che ha “costruito” la fobia nel qui e ora della persona. In pratica, ciò viene definito come un sistema ricorsivo che innesca una reazione senza fine –effetto Butterfly  – ( Nardone, 1995).

Per esporre la formazione dei problemi dobbiamo partire dalla teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell la quale afferma che “qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione”. Questo importante assioma dei Principia Mathematica ha una importante conseguenza dal punto di vista delle relazioni umane. La sua applicazione ha trovato la genealogia dei giochi psicologici (Salvini Palazzoli, 1966) e in psichiatria con il concetto di “doppio legame” (G. Bateson, 1972).
Il principio si può riassumere con l’affermazione che la totalità è più della somma delle parti.
Quando si tenta di trattare la parte come il tutto si va incontro a confusione e a paradossi.
I livelli logici hanno una loro gerarchia e non possiamo trattare un elemento (parte) come una classe (il tutto dell’insieme).
La teoria dei sistemi fa ricorso alla interdipendenza del suo funzionamento dalla interconnessione delle sue parti. Così, basta che un solo elemento del sistema non funzioni che l’intero sistema si fermi, oppure risponde con un funzionamento alterato ad un livello diverso.

L’uso del paradosso

I messaggi paradossali hanno la caratteristica di contenere affermazioni che si contraddicono, per cui una affermazione esclude l’altra. Un paradosso, è un ragionamento che appare contraddittorio, ma che deve essere accettato, oppure un ragionamento che appare corretto, ma che porta a una contraddizione: si tratta, secondo la definizione che ne dà Mark Sainsbury, di
“una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile“
Il paradosso più antico è quello di Epimenide Cretese, che diceva: “Tutti i cretesi sono bugiardi.” Se Epimenide dice la verità, la sua affermazione non è valida, in quanto è membro di una classe – i Cretesi – che è stata definita come una classe di mentitori. Se Epimenide dice il falso e tutti i cretesi non sono bugiardi, la sua affermazione non è valida, perchè sta includendo se stesso, un bugiardo, in una descrizione dei membri di una classe composta di persone che dicono la verità (Da Gurman e K.). Tornando ripetutamente sul significato cercheremo di dare senso alle affermazioni in toto ma senza riuscirci. Gli effetti possono essere decisamente destabilizzanti e, nelle relazioni significative creare un black out della mente e una deviazione del pensiero con influenze sulla percezione.
Uno studio approfondito è stato compiuto da Watzlawick (Watzlawick,1974), il quale riporta un episodio abbastanza singolare accaduto realmente a Vienna all’inizio del 1900. Un giovane si getta nel fiume con l’intenzione di suicidarsi. Un poliziotto che si trovava nelle vicinanze intervenne tirando fuori il fucile e intimando al giovane di uscire immediatamente dall’acqua altrimenti non avrebbe esitato a sparargli. Il giovane uscì dal fiume senza rendersi conto di ciò che stava succedendo. L’aneddoto riportato ci può aiutare a comprendere che nel sistema percettivo e reattivo del giovane la minaccia del poliziotto confliggeva con la sua idea di farla finita. Il sistema in cui egli si trovava coinvolto non gli diede adito di riflettere sulle conseguenze a cui avrebbe portato la situazione. Nel sistema logico egli poteva ritenere la minaccia inutile in quanto in qualsiasi modo avrebbe portato a compimento la sua decisione. Ma qualcosa gli intimava di rispettare quel comando e così in modo paradossale gli fu salva la vita.
In un’ottica strategica, non si conosce più per cambiare, ma si cambia per conoscere: il ricorso a una logica non ordinaria, basata sulla suggestione di stratagemmi antichi e insieme modernissimi, scuote le nostre convinzioni razionali e offre soluzioni inaspettatamente semplici a problemi di natura disparata. Un percorso in cui non si parte dall’astrattezza lineare di una teoria per procedere alle sue applicazioni, ma si opera nel modo esattamente opposto grazie a quella che Nardone definisce “consapevolezza operativa”: è attraverso la soluzione che si perviene alla conoscenza di un problema.
Le situazioni di impasse simili verranno a costituirsi ogni qualvolta, ad esempio, un genitore accusa il figlio o la figlia di essere troppo passivo o ubbidiente. L’eventuale reazione da parte del figlio di disubbidire si configura in questo caso come un ulteriore atto di ubbidienza in quanto il ragazzo avrà ubbidito al padre o alla madre. Il ragazzo può ubbidire soltanto disubbidendo. Questo paradosso viene indicato con la prescrizione: “Sii spontaneo”. In questo caso il giovane non potrà essere spontaneo proprio in quanto gli viene richiesto.
Il modello “sii spontaneo” è universale in quanto può pervadere tutti gli aspetti dell’interazione umana. Spontaneità, fiducia, coerenza, dimostrabilità, giustizia, buon senso, potere e molti altri concetti simili, possono condurre al paradosso e al doppio legame nella comunicazione. Quindi, la comunicazione di cui si avvale la terapia strategica è quella che più che spiegare è capace di far sentire, quella capace di arrivare e contagiare il cuore ancora prima di essere compresa dall’intelletto. In questo campo comunicativo la dialettica lascia spazio alla dialogica e le spiegazioni logico-relazionali si piegano, soprattutto in una prima fase, di fronte al dialogo strategico; il linguaggio descrittivo-logico affianca quello analogico.

Il cambiamento
In conseguenza della teoria dei tipi logici il cambiamento può benissimo distinguersi in due tipi: il tipo1 e il tipo2. (Watzlawick et Al. 1974).
Il cambiamento “2” rappresenterebbe un vero cambiamento mentre tutti i cambiamenti che non comportano un salto logico vengono definiti cambiamenti di tipo 1. Esso, sebbene un fenomeno quotidiano nella vita pratica di ciascuno, in quanto vengono trovate soluzioni nuove e creative. Le organizzazioni come gli organismi sono in grado di correggersi e trovare nuovi adattamenti.
L’elaborazione scientifica e l’atto creativo sono chiari esempi di cambiamenti veri (di tipo “2”). Spesso il cambiamento avviene in seguito ad un atto intuitivo, ad un salto logico come la percezione di una situazione o di una idea in due sistemi di riferimento incompatibili ma coesistenti.
L’esempio più classico di cambiamento cosiddetto di tipo 2, ci viene offerto dagli esperimenti sul pensiero produttivo compiuto dai teorici della Gestalt (M. Wertheimer, 1959).
Il cambiamento appare come un salto decisivo e imprevedibile, “una invenzione che non dipende dai processi logici” (Bronowski, 1966. Da Watzlawich et Al. 1974). In certi casi, il cambiamento appare brusco, imprevedibile, illogico soltanto in termini di cambiamento1, cioè da dentro il sistema, mentre il cambiamento2 è introdotto dal di fuori del sistema. L’implicazione teorica della teoria dei sistemi definisce una nuova epistemologia che ammette il cambiamento solo dall’esterno del sistema utilizzando un meta sistema che guarda e valuta dal di fuori. Così, la logica più auspicabile per la risoluzione di un problema è spesso ritenuta quella che consente di collocarsi immaginariamente al di fuori del sistema. L’esempio più chiaro è il problema dei 9 punti (Wertheimer, 1959). Uno più immediato si riferisce al sognare. Una persona che vuole fare, durante il sogno, un cambiamento di tipo 2 può solo svegliarsi. (Watzlawick et Al., citato).
Per risolvere il problema dei 9 punti, il soggetto prova ripetutamente una soluzione tutta dall’ interno della sua organizzazione, cioè della forma quadrata dei nove punti. Ciò porta ad una serie di tentativi infruttuosi.
Per risolvere il problema bisogna allora porsi immaginariamente dall’esterno dello schema. In questo modo risulta meno complicata la sua soluzione. (1). [Nella filosofia Zen, “La vita è una spada che ferisce, ma non può ferire sé stessa: così come l’occhio vede, ma non può vedere sé stesso”].

Una ulteriore chiarificazione dell’approccio strategico che richiama i principi della teoria costruttivista è quello di intendere il cambiamento a cui abbiamo fatto ricorso alla teoria dei sistemi, non del tipo Insight come lo intendevano i teorici della Gestalt cioè, proveniente da una ipotesi di “fissità funzionale”. Se il soggetto fa ricorso alla sua esperienza passata non sarà in grado di trovare la soluzione. Pertanto, essa è irrilevante. La teoria dei tipi logici ci indica che non dobbiamo guardare alla classe (il quadrato) con il linguaggio adatto ai suoi singoli elementi (i punti) ma rivolgerci al problema secondo una logica difforme.

La tecnica della ristrutturazione

Uno dei mezzi più vantaggiosi per ottenere il cambiamento è la ristrutturazione della realtà costruita che viene a subire un attacco costruttivista e strategico. Ristrutturare significa dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale ed emozionale del soggetto e porlo in condizione di considerare i fatti che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare meglio la situazione anziché eluderla.
La strategia è quella di rompere il sistema percettivo e le abitudini ricorsive che il soggetto mette in atto continuamente per mantenere il disturbo.
La ristrutturazione è una tecnica messa in pratica per ottenere il cambiamento di tipo 2 (Watzlawick et Al, 1974).

Viene descritta come “spostare l’accento dall’idea che un oggetto appartiene ad una classe all’idea che esso invece appartiene ad una classe diversa ma ugualmente valida e, soprattutto, fare accettare a tutti gli interessati l’idea di tale appartenenza dell’oggetto ad una nuova classe”.
Con la ristrutturazione dello schema che si è maturato della realtà del singolo noi proviamo a definire una nuova concezione o interpretazione di essa senza fare ricorso ad una spiegazione logica o ad una forma di razionalizzazione. Spesso nella pratica psicoterapeutica viene naturale introdurre il paziente ad una spiegazione più razionale ed efficace che egli ha della sua malattia. Si parte per questo dalla spiegazione delle origini, su come il nostro sistema concettuale spiega la natura del problema utilizzando una serie di pratiche che fanno parte del modello di cui si è portatori.
La ristrutturazione fa uso della tecnica della sostituzione del sintomo. Si tratta di una pratica paradossale che mette il soggetto nella condizione di utilizzare una forma di attacco al suo sistema percettivo usuale utilizzando il sintomo stesso che è stato una “creazione” del soggetto stesso al fine di renderlo protagonista e non più succubo del malessere che teme. La pratica più comune consiste in uno stratagemma chiamato “la peggiore fantasia” e consiste nel vivere in modo quanto più verosimile la propria situazione problematica, in contrasto con la sua proverbiale abitudine a sfuggirgli. La prescrizione del sintomo serve a “…smontare l’effetto contraddittorio dell’evitare ciò che ci fa paura, finendo al contrario per aumentare i nostri timori e il nostro senso di incapacità” ( Nardone, 1993; Nardone, 2005). Ad un balbuziente si può raccomandare di balbettare quanto più è possibile.”

La strategia confusiva di M. Erickson

La matrice del principio può anche essere assimilata alla ristrutturazione confusiva a cui si riferisce Milton Erickson. Erickson nell’uso del sintomo come parte integrante dell’ipnoterapia. Egli afferma che “molto più spesso di quanto ci si renda conto la terapia può venire saldamente stabilita su una base solida solo mediante l’utilizzazione di manifestazioni sciocche, assurde, irrazionali e contraddittorie”. In psicoterapia, anche lo shock poteva essere utilizzato in maniera creativa (con o senza ipnosi) per infrangere atteggiamenti e modelli di comportamento disadattavi, dando così modo al terapeuta di aiutare il paziente a riordinare in una forma più costruttiva gli apprendimenti della sua vita.

In un famoso caso clinico Erickson assegna un compito paradossale al suo paziente fobico. Egli attua quello che Nardone chiama “solcare i mari all’insaputa del cielo” riferendosi ad un’antica pratica Zen. L’espediente mette la persona nella condizione di escludere dalla riflessione immediata di quello che sta accadendo, facendo ricorso essenzialmente alla percezione di ciò che accade. Ciò che accade è appunto dentro il seguente compito attribuito da Erickson al suo paziente fobico molti anni prima della nascita del lavoro dei teorici di Palo Alto. Il paziente si sarebbe dovuto fermare ad ogni palo della luce nel percorrere con l’auto la strada che lo portava ad uscire dal suo comprensorio. (Era questo il suo problema: l’incapacità ad uscire dalla città da solo in auto). Ogni volta che si fermava doveva togliersi la giacca e sdraiarsi sul ciglio della strada per qualche minuto. Si sarebbe poi alzato, spolverato alla meglio, rimesso la giacca e ripreso il viaggio fino al successivo lampione. Arrivato nelle sue prossimità, cioè dopo 50 metri, egli avrebbe dovuto ripetere la stessa operazione, scendere dall’auto, togliersi la giacca, distendersi sul ciglio e così via fino alla confluenza con un’altra strada che si trovava una decina di miglia distante. La persona venne munita di un permesso scritto, firmato dal medico, da esibire alla polizia nel caso lo avessero fermato per chiedergli spiegazioni. Il compito fu portato a compimento solo parzialmente in quanto il soggetto, che era una persona che godeva di una certa rispettabilità, preferì ben presto rinunciare per continuare il percorso che fino a quel momento non era stato più in grado di compiere dato il suo problema sopraggiunto qualche anno prima. [M. Erickson, Opere,1980).

Il sistema percettivo – reattivo dell’acufene
.
Da un punto di vista eziologico, la principale origine dell’acufene sarebbe di tipo cocleare, in particolare lesioni delle cellule ciliate dell’orecchio interno dopo un trauma acustico (Londero et al., 2006).
L’acufene si presenta quasi sempre come un suono, un fruscio o un tintinnio da cui nasce anche il termine tinnito o tinnitus. E’ percepito come estremamente fastidioso all’incirca dal 3 – 5 % della popolazione adulta in generale. Mentre una parte considerevole di chi lo sperimenta come sintomo di un malessere dell’orecchio, sia direttamente che indirettamente, lo vive come sintomo transitorio. L’acufene influenza fortemente il sonno, l’umore, la concentrazione e le normali attività quotidiane lavorative e comunicative in generale (Davis e El Refaie, 2000; riportato da S. Palmieri in Medicitalia, 2018.

Il malessere cronico acufene è lo stimolo che attiva il sintomo acufene. Per la maggior parte degli studiosi si crea un’associazione stabile e duratura tra la tendenza a rendere attivo uno stimolo nocivo e la risposta. Il suono “acufene” recupera un significato altro rispetto al danno per cui non c’è scissione tra ansia patologica e acufene.
La terapia tradizionale
L’approccio che mira ad eliminare l’acufene come un problema estinguendo le connessioni funzionali tra il sistema uditivo e il sistema nervoso autonomo e limbico per raggiungere l’abitudine alle reazioni provocate dall’acufene e successivamente l’abitudine alla percezione è oggi il Modello Jastreboff). Per eliminarlo bisogna creare un nuovo collegamento tra acufene e l’attività neutra (con uno stimolo neutro, come ad esempio un rumore naturale. Acufene e rilassamento diventano compresenti nel protocollo di trattamento.
Terapia sonora degli a. dott. G. Attanasio (www.acufeni.net).Tranquillizza gli ascoltatori e parla di fortuna e percorso comportamentale e sonoro. L’acufene aumenta o diminuisce in base al nostro umore e all’attenzione che gli attribuiamo.
Per gestire l’acufene bisogna sapere tollerare bene e sapere cosa fare e cosa non fare.
L’affermazione secondo cui “l’acufene è un sintomo e non una malattia, quindi, non va curato ma semplicemente rimosso” ci porta a dedurre che
Il fischio o sibilo è una conseguenza dell’infiammazione o del trauma dell’orecchio all’inizio dell’esperienza soggettiva. Sarà l’esperienza percettiva soggettiva a trasformare una condizione transitoria e poco significativa in una di insofferenza e dolorosa.
Viene trattato come di solito viene trattato il dolore. Viene ingigantito il danno che all’inizio è solo un fastidio ma poi l’atteggiamento della persona di fronte alla paura lo fa assurgere a dolore impellente e sempre più manifesto nelle situazioni più difficili e stressanti. Può anche assumere una connotazione fobica in quanto la paura rende il fastidio iniziale un danno che altera l’equilibrio emotivo e limita la vita sociale e lavorativa. In questo modo l’evento scatenante che normalmente non produce danni in persone particolarmente emotive e apprensive genera una paura che può diventare incontenibile.

“Sarà il personale sistema percettivo emotivo che attiverà “un progressivo caricamento auto – suggestivo che condurrà alla “costruzione” del primo attacco di indomabile paura. Sulla base di tale episodio poi, vengono a costituirsi sequenze di retro azioni tra soggetto e realtà che conducono alla percezione e alle reazioni fobiche generalizzate”. Risulta evidente che la reazione iniziale, che dipende spesso dalla disposizione della persona, definisce il percorso del danno che chiamiamo acufene. Il disturbo sarebbe apparso e si sarebbe gradualmente complicato sulla base di dubbi e pensieri relativi al potersi sentire male, a non poter controllarne l’evoluzione e alle opinioni dei medici consultati che spesso lo definiscono irrisolvibile e a cui non rimarrebbe che rassegnarsi.
Su questa base il soggetto con disturbo da acufene viene spinto dalla volontà di evitarne sistematicamente di ascoltare il rumore che nel frattempo ha assunto la forma di vero e proprio persecutore interno.
Dall’altra, non perde la speranza che ci possa essere una cura di qualsiasi genere che fermerà quel rumore assordante e continuo che lo porterà all’impazzimento.
E’ questo il territorio in cui viene spinta la persona con acufene. Potrà attribuire al disturbo una serie di altri sintomi quali stanchezza, confusione, tachicardia, eccessi d’ira, mancanza di concentrazione, ecc. Il soggetto è spaventato da tutte queste conseguenze del danno iniziale e dalle somatizzazioni conseguenti che tale situazione emotiva ripetutamente scatena.
Appare chiaro che il soggetto con acufene distorce la realtà costruendone una interpretazione tutta personale che invece di affrontare il disturbo iniziale come transitorio e riporre fiducia nella possibilità che esso possa andare via in tempi ragionevoli, si è applicato sulla suggestione con attenzione continua e ossessiva trasformandolo egli stesso in un problema nel giro di qualche giorno o settimana.
Nell’approccio strategico va esaminato in primo luogo il Sistema di percezione e reazione dell’organismo del soggetto. In particolare, ci si domanda come ha funzionato ingigantendo appunto la realtà che è diventata ben presto assillante e perturbante.
Nella teoria che sottende l’approccio strategico, ovvero, la teoria costruttivista si ritiene che il prodotto finale, cioè l’acufene, sia stato letteralmente costruito dal soggetto. Un vero e proprio “manufatto” che potrà comunque essere “smontato” cioè ridotto all’epifenomeno che è stato in origine: la conseguenza di una infiammazione alle cellule ciliate dell’orecchio interno che può essere curata facilmente e in tempi ragionevoli.

Nell’approccio strategico viene affrontato l’acufene al pari di un disordine fobico. Il dubbio che diviene fissazione induce nel soggetto comportamenti di evitamento – “non devo pensarci” – e fuga da tutto ciò che potrebbe innescare la catena dei pensieri e delle emozioni negative. Ciò, anziché produrre effetti positivi si trasforma in mancanza di controllo e si traduce in impotenza e in sofferenza. Il tentativo mal riuscito del controllo viene trasmesso alle persone come messaggio che non è capace, che non è efficace, che non riuscirà mai a controllare il problema e che questo diventerà insostenibile e lo porterà alla pazzia. Nardone, nella descrizione della sintomatologia fobica così si esprime: “ …ciò che innesca il processo che condurrà alla costituzione di quello che noi definiamo il sistema percettivo-reattivo fobico, non è un evento frutto di una precisa e ricostruibile causalità, ma una sorta di fluttuazione del caso che conduce alla prima esperienza diretta o solo immaginaria di paura. Da tale primo casuale evento con una graduale ma dirompente reazione a catena, basata sulla retroazione tra soggetto e realtà, si giunge alla costituzione della grave sintomatologia fobica.”.
La sequenza viene descritta da Nardone come “la trappola mentale in cui si trovò il “millepiedi” della storiella riferita dall’Autore (Nardone, Watzlawick, 1990), che “cominciò a pensare a come era difficile muovere i suoi mille piedi contemporaneamente e, di conseguenza, cominciò a volere controllare e dirigere tale spontanea capacità, con il risultato che non riuscì più a camminare” (Paura, fobia, panico, 2016).
Noi, non possiamo che assimilare questo disturbo, come tanti altri di origine psicogena, a quelli di natura fobica, ossia, costruitisi sulla base di un pensiero pauroso e dirompente. Sembra, perciò, che l’acufene, come tutte le fobie, venga attivato da un evento casuale e marginale ma che sia il soggetto stesso a mettere in atto tutte le performance per evitare la paura e di conseguenza, arrivare al danno che produce in questo modo il suo effetto psicologico.
Per Nardone, sono quindi le “tentate soluzioni” messe in atto dal soggetto “per sfuggire alla paura dello scatenamento delle proprie reazioni emotive e somatiche conducono all’aggravarsi della sintomatologia stessa, finendo ‘per costituirla ad un livello superiore di gravità, quello della completa generalizzazione della completa delle percezioni e reazioni fobiche nei confronti della realtà”. Uno stato di impotenza appresa (M. Seligman, 1996).
In seguito a questa esperienza l’individuo finisce per attendersi di non poter esercitare alcuna influenza sulle cause del suo malessere. In diversi casi la condizione di impotenza appresa conduce a reazioni di paura acuta e rituali che variano a seconda della personalità e agli schemi di risposta culturalmente disponibili dalla persona ( Selvini 1991, p.14 Rif. Da Nardone, op. cit.).

Le tentate soluzioni

Le tentate soluzioni sono quindi derivanti dalle convinzioni comuni nel soggetto predisposto quali:
• “continuerà per sempre”;
• “diventerà sempre più forte”;
• “nessuno può curarlo”;
• è causato da malattie pericolose” (problema cardio-circolatorio, tumore, pazzia);
• “diventerò sordo”;
• Non potrò mai più godere del silenzio

Conclusioni

La principale tentata soluzione per chi soffre di acufene è quella di mascherare il rumore di fondo con altri rumori o suoni e spesso ad alto volume. L’altra è quella di combatterlo utilizzando la forza di volontà.
Le tentate soluzioni impiegate dal soggetto portatore di acufene non avranno altro che l’effetto di approfondire il disturbo e renderlo fortemente disabilitante. Bisognerebbe allora usare una strategia che, a partire dalla rinuncia alle tentate soluzioni impiegate, conduca il soggetto ad utilizzare le stesse modalità percettive che lo hanno portato al danno. Nel nostro caso abbiamo utilizzato il sistema concettuale della sostituzione del sintomo.
L’unica via che condurrà al superamento del problema sarà quella di evitare di porre l’attenzione sul sintomo.
Sappiamo che l’attenzione al sintomo diventa il problema principale del candidato all’acufene in quanto esso funziona come imporre a qualcuno di non pensare a qualcosa che viene nominato e di cui il soggetto non riesce a fare a meno di pensare. Si tratta di una condizione chiara ed evidente a cui nessuno è in grado di sottrarsi.

Per cambiare la percezione del sintomo bisogna modificare direttamente il modo di organizzare le informazioni percepite, l’interazione logica tra soggetto e realtà. Essendo il sistema percettivo-reattivo del soggetto fortemente rigido, bisogna mettere in atto una o più strategie per aggirare la sua resistenza al cambiamento.
Il primo passo sarà quello di indurlo a fare qualcosa senza che egli se ne renda conto. Bisogna cioè, fare ricorso alle strategie e agli stratagemmi di cui si sono forniti i padri della terapia strategica come paradossi, trappole comunicative come il doppio legame terapeutico, le ingiunzioni, le ristrutturazioni e le prescrizioni di comportamento.
Già Nardone metteva in guardia dall’utilizzare forme di desensibilizzazione sistematica in quanto si interverrebbe sulla riduzione e sostituzione dei comportamenti e “non si interviene minimamente sulle percezioni del paziente e sulle elaborazioni cognitive che conducono a tali comportamenti” (p. 66). funziona nel “quì e ora” della persona” (Nardone; “Paura, panico, fobie”; 2016). Recentemente ho affrontato un caso di acufene col metodo della Scuola di Terapia Strategica di Nardone (CTS Arezzo) ottenendo qualche risultato che sembra permani (https://www.dottpaolomancino.it/acufeni-ecco-la-cura).

Indice
Sara Palmieri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano, “Il ruolo della terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dell’acufene” in Medicitalia 2018).

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